Creation. Sylvia Nickerson e il tempo stratificato della città, dei corpi, delle relazioni

Il legame tra gentrificazione e comunità artistica è uno dei grandi temi al centro di un dibattito sulle trasformazioni sociali in atto da ormai quindici anni. I profeti dello sviluppo urbano vedevano nella migrazione dei giovani creativi verso le grandi città una possibilità di miglioramento economico e sociale, ma ciò che più verosimilmente si è verificato è stato un divario tra centri e periferie e un conseguente sbilanciamento del costo della vita a danno dei più poveri.

Chi voleva speculare su questo esodo lo ha fatto, così i palazzi sono diventati investimenti, gli affitti sono aumentati e le case hanno iniziato ad essere lasciate vuote da chi non poteva più permettersele. Cambiando il volto del quartiere, da popolare a borghese, si è cambiato anche il suo tessuto sociale e l’inasprimento delle differenze di classe è diventato così un effetto collaterale del “progresso”.

Nel suo memoir, Creation (Drawn & Quarterly, 2019; ancora inedito in Italia) Sylvia Nickerson utilizza il fumetto come strumento per fare autocritica e parlare di responsabilità (gli artisti hanno colpe, certo, ma non sono che un pezzo del puzzle) ed esplorando i legami tra biografia e narrativa, arriva a toccare aspetti duri dell’esperienza umana come povertà, depressione post-partum, crimine e violenza.

La stessa Sylvia Nickerson è stata per sua ammissione una gentificatrice, una ragazza della classe media arrivata in città per fare l’artista, con uno studio condiviso posizionato in un quartiere considerato malfamato che in breve si è trasformato in una piccola Broadway.

Qualche passo indietro. Quando aveva ventidue anni, Nickerson arrivò a Hamilton, Ontario, con il suo compagno (poi marito) e un sogno: sfondare nel mondo dell’arte e farsi un nome all’interno della scena creativa di James Street, a Beasley, il quartiere artistico della città.

Trovò presto uno studio dove lavorare, conobbe qualche cliente e lavorò come illustratrice per qualche anno. Poi rimase incinta e, più o meno contemporaneamente, il suo matrimonio iniziò a sfaldarsi. Quando nacque suo figlio Toby si trovò a crescerlo da sola, immersa nella nostalgia di una libertà (fisica, ma anche mentale) che sembrava non poter più avere, in una città che non aveva mai veramente guardato negli occhi.

Anche il suo idealismo a quel punto cominciò a sgretolarsi. Non aveva fatto caso nemmeno per un momento al quartiere in cui lavorava, e il modo in cui si evolveva, ma da madre si rese conto che non solo il suo quartiere ma anche la città di Hamilton aveva uno dei tassi di povertà più alti del Paese, e conviveva da tempo con problemi seri di inquinamento, povertà e violenza.

Dopo essersi ridimensionata, con gli occhi bene aperti, iniziò a scrivere del suo quartiere (che nel frattempo era diventato il suo mondo, dato che dovendo badare al figlio non andava molto più in là di un paio di isolati, col passeggino al seguito) e riflettere sul futuro.

E quando il senso di individualità sparisce e inizi a pensarti come membro di una community è automatico che la food bank dietro casa, visitata ogni giorno da lunghe code di bisognosi, diventi una tua ossessione, così come la salute dell’aria, dell’acqua e del suolo, compromesse da anni di sfruttamento industriale. “Un tempo conoscevo le cose. Le cose che imparavo dai libri. Le cose che leggevo a scuola. Ora ciò che conosco sono solo i nostri corpi, e queste strade”, scrive nel terzo capitolo, Garbage.

L’incertezza e l’indeterminatezza di Creation sono amplificate dallo stile di disegno di Nickerson. Le tavole interne (che a dispetto della vivace copertina arcobaleno, sono in bianco e nero acquerellato) mostrano un ambiente disegnato in maniera realistica e particolareggiata. La manifatturiera Hamilton, il cui motto è ironicamente “La città ideale dove far crescere un figlio”, viene spesso raffigurata dall’alto, includendo in questo modo nella stessa inquadratura le aree del malessere urbano e della vulnerabilità sociale, con quelle dell’agio e del benessere. La cartellonistica completa il quadro di una città “ambiziosa” dalle mille contraddizioni: insegne pubblicitarie di gruppi immobiliari, affissioni di protesta, manifesti con numeri verdi per segnalare persone scomparse, un chiasso di informazioni urlate che non fanno che rendere ancora più apatiche le persone che vi passano davanti.

Le figure che abitano questi luoghi sono fantasmi, forme vaghe, indefinite, senza volto. Sono dei “segna-posto”, simili agli omini di Keith Haring ma meno vitali, più tristi. Rappresentano la comunità ignorata, che incrociamo ogni giorno senza rendercene conto. Anche Sylvia stessa si disegna in questo modo, con un accenno di passeggino o di una fascia porta bebè che fanno intendere che con lei ci sia Toby, mentre cammina lentamente di fronte a negozi chiusi e caffetterie vintage.

Nella realtà che ci racconta Nickerson mancano forme significative di relazionalità, eppure ci sono momenti, brevi lampi, in cui alcuni individui riescono a legare tra di loro e in quel momento il disegno dei loro connotati di fa più realistico. Accade ad esempio quando incontra una donna che chiede l’elemosina e finisce per offrirle il pranzo e farci una chiacchierata. In questi momenti i corpi e i volti diventano nitidi, dettagliati, inquadrati da vicino (se non vicinissimo). Una connessione si è riaccesa, seppur per brevi istanti.

Questa donna che incontra e a cui chiede il nome (“Nancy”) sarà tristemente protagonista di uno dei capitoli conclusivi. Ispirata alla figura di Laura Young, giovane senzatetto che nel 2011 venne uccisa a coltellate da un uomo in seguito accusato di omicidio di almeno altre due persone, nell’area di Hamilton.

Nickerson partecipò alla veglia funebre organizzata in città per Young (che era una mendicante nota nella zona e considerata amica da molti negozianti, “un angelo” dai famigliari) e decise che ne avrebbe parlato nel libro, rendendosi conto che mentre alcuni stavano davvero piangendo la perdita di una persona cara, molti si erano presentati solo per questioni di apparenza.

Nell’enormità di questo universo, come una voce fuori campo Sylvia Nickerson racconta anche la sua storia personale: il rapporto con l’ex marito, l’affetto per i genitori ormai anziani e, purtroppo, entrambi malati di tumore, le visite al centro di medicina, la maternità affrontata in solitudine, i prodromi della depressione, i vernissage cui prende ancora parte nonostante sia diventato difficile per lei rimanere fuori con un figlio al seguito.

Ad un certo punto sulla città si vede aleggiare una nube disordinata di ricordi, oggetti, emozioni, sensazioni, persone. Un “blob” che rimarrà fino alla fine a sovrastare le tavole, come se l’autrice volesse rappresentare ciò che è accaduto e continua ad accadere attorno a noi, anche mentre siamo assorbiti dai nostri sforzi per per essere presenti a noi stess*.

Il libro in fin dei conti racconta proprio questo, la tensione tra i cambiamenti subiti e quelli agiti. L’ambiguo confine tra distruzione e creazione. Lo fa con uno stile che mescola la concretezza materiale di luoghi, edifici, strade con l’impalpabilità di emozioni e ricordi.

L’immaginazione e la fantasia di cui è capace Nickerson filtrano l’intima lucidità della sua analisi, in un disegno gentile che abbraccia un racconto intenso, personale e al contempo universale.

Nella conclusione di Creation, ritroviamo curiosamente il suo inizio. Se al principio Nickerson si era raccontata come una madre in difficoltà, piena di rimpianti e convinta che “i sogni siano una bugia”, alla fine mostra aver ritrovato una qualche serenità. Ripresenta le stesse vignette del primo capitolo, ma con un nuovo testo descrittivo, e ci racconta non tanto di aver improvvisamente conquistato una maturità che l’ha messa in pace con se stessa, quanto di aver imparato a convivere con i suoi molteplici ruoli – di tutrice, di artista, di figlia, di cittadina – accettandone la fallibilità.


Note:

• Non solo arte. Sylvia Nickerson porta avanti in parallelo anche una vita da accademica. Ha infatti conseguito un Dottorato in Matematica ed è ora Sessional Lecturer presso l’Università di Toronto. Creation è il suo primo libro a fumetti.

• Ha ereditato l’interesse per il mezzo fumetto da suo padre, che disegnava per passione e spesso ha dedicato anche lettere d’amore illustrate alla moglie, la mamma di Sylvia.

• Sua editor per questo libro è stata Kate Kennedy, amica di Nickerson dai tempi dell’università. Nel suo blog personale, ricorda così l’esperienza di lavorazione del libro: “Creation would have been picked up by a publisher whether or not Sylvia took any of my suggestions. Not every edit is a big, wrangling, all-consuming overhaul; sometimes being an editor is being the person whose desk the writer puts stuff on so that it’s not on their desk for a while, so that someone else is looking at it”.

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