Comarò vol. 4 – In conversazione con Marco Taddei e Maurizio Lacavalla

Sabato 10 maggio, per l’incontro conclusivo della rassegna Comarò, abbiamo ospitato a Casa Capra Marco Taddei e Maurizio Lacavalla, i due autori di “HPL – Una vita di Lovecraft” pubblicato da Edizioni Bd. Un fumetto che racconta una vita potenziale del celebre scrittore di Providence ed è strutturato come una sorta di monologo interiore dello stesso, in bilico tra brandelli di realtà e macabre fantasie. Un arazzo degli abissi che, come rivelerà chiaramente la chiacchierata trascritta qui di seguito, è frutto in primis della folle passione di due autentici lovecraftiani.

VALERIA: Questa è la vostra prima collaborazione. Ci raccontate come vi siete conosciuti e com’è nata questa avventura “a quattro mani”?

MARCO TADDEI: Quando e com’è nato questo amore vuoi sapere? Forse Maurizio lo ricorda meglio di me, mi sembra fosse il 2018. 

MAURIZIO LACAVALLA: Sì, era il 2018.

MTAD: Eravamo a Bari, a questo festival chiamato “BGeek”. Una cosa da smanettoni e nerd. Quello era un periodo strano, in cui le case editrici mandavano molti autori a questo genere di eventi. C’era anche Tuono Pettinato, per capire comunque il calibro delle personalità coinvolte. Maurizio era lì per promuovere il suo primo libro (“Due attese”, edito da Edizioni Bd). Tra uno stand e l’altro l’ho visto e per me è stata una fulminazione: ho sentito immediatamente una morbosa attrazione per il libro, tanto che l’ho preso subito e poi ne ho anche scritto per The Towner…

MLAC: Per il Tascabile!

MTAD: Ah, giusto. Se non ci fossi tu! (Ride) Feci una recensione del suo fumetto, tanto mi piacque. Nella mia testa quindi qualcosa stava già succedendo. Questi inchiostri oscuri, questo modo di disegnare così liquido mi ispirava tanta narrazione. Io all’epoca avevo già nel cassetto il testo per questo libro (HPL, n.d.r.), che avevo scritto attorno al 2015. Lo avevo tenuto da parte per una serie di ragioni, tra le quali il fatto che era un progetto assurdo e non aveva ancora trovato la sua dimensione. Vedendo il lavoro di Maurizio m’è tornato subito in mente quello che avevo scritto.

MLAC: Qualche mese dopo, a Lucca Comics, mi vede e mi fa la fatidica domanda: “Tu hai mai letto Lovecraft?” Io gli rispondo di no, perché all’epoca la mia conoscenza di Lovecraft si limitava a quelle due-tre storie che avevo letto da ragazzino, tra i 14 e i 15 anni. Gli rispondo così e il giorno dopo lui mi manda una mail con la sceneggiatura che aveva scritto; la prima delle innumerevoli stesure venute dopo. Ci tengo a dire che le parti che mi avevano colpito di più della sceneggiatura che aveva scritto Marco erano quelle che non ricordavo ci fossero nella letteratura e nell’immaginario di Lovecraft. Erano delle parti che derivavano e si potevano muovere all’interno dei mondi di Howard (Lovecraft, n.d.r) ma ne risultavano indipendenti. Difatti, salvo eccezioni clamorose come il lavoro di Alberto Breccia, non mi sono mai sentito veramente attirato dal modo in cui Lovecraft era stato rappresentato nel tempo. Non sentivo “mio” quell’immaginario costellato di mostri e tentacoli. Ho detto subito a Marco: se vuoi l’orrore te lo metto, ma i mostri no. Cthulhu,  creatura abissale ormai ridotta a meme e Funko Pop, l’ho disegnato per questo solo una volta nel libro.

MTAD: Non cercavo altro. Una presa di posizione del genere per me era miele.

MLAC: L’orrore l’abbiamo inserito nelle pieghe della vita di Lovecraft. Le parti più spaventose secondo me sono quelle ambientate nella casa dove viveva con le zie e i nonni. È stato un lavoro costante di riscrittura reciproca.

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Comarò vol. 3 – In conversazione con Vincenzo Filosa

Sabato 5 aprile, Vincenzo Filosa è venuto a trovarci a Schio per il terzo appuntamento di Comarò. Mentre aspettavamo il pubblico, abbiamo scherzato sulla sua passione per il marchio Lacoste e sugli epiteti (es. “Bro”) che a Milano sono in voga tra gli adulti tanto quanto tra i ragazzini dell’età di suo figlio. Una volta dentro il teatro, giunto il momento di farci seri, è scaturita una conversazione ad alta intensità emotiva che ha fatto luccicare gli occhi dei presenti in ascolto. Di seguito potete leggerne la trascrizione – condensata quanto possibile, per esigenze editoriali. 

VALERIA: Abbiamo scoperto che oggi è San Vincenzo, che meraviglia. Auguri Vincenzo e grazie per essere qui. 

VINCENZO FILOSA: Bellissima coincidenza. Grazie a voi per l’invito e grazie a voi del pubblico che siete venuti qui oggi, non potevate farmi regalo più grande.

V: Per rompere il ghiaccio ti faccio una domanda che non riguarda i tuoi libri, ma piuttosto una tua recente mostra. Qualche settimana fa hai inaugurato una personale all’interno di una scuola media di Milano: ci racconti com’è andata? La location è a dir poco insolita.

VF: Questa mostra di cui parli è ancora aperta, la tengono su fino a giugno. La scuola è quella che frequenta mio figlio: si chiama “Rinascita”, sta dalle parti del naviglio pavese. Lo scorso settembre l’insegnante di arte mi aveva chiesto se ero disponibile per un laboratorio o una mostra e le ho detto immediatamente di sì. In genere queste proposte mi fanno sempre piacere, ma nello specifico qui non ho esitato perché si trattava dell’insegnante che durante un Open Day mi aveva convinto a iscrivere mio figlio in quell’Istituto (e questo nonostante sia dall’altra parte della città rispetto a dove abito)! La sua proposta per la mostra è andata avanti, sono venuti a prendere le mie tavole, e l’allestimento è partito. Ci tengo molto, mi sembra che mio figlio lì abbia trovato una casa dove crescere. Io non sono esattamente un autore da scuola media, come avrai visto, ma superato l’imbarazzo iniziale (“È tutto vero?”, “Eh, sì”) alla fine ci si aggiusta per il meglio.

V: Le insegnanti sanno dunque che sei un fumettista, non hai avuto difficoltà a spiegare il tuo lavoro? Invece a tuo figlio e ai coetanei?

VF: Per mio figlio è stato semplice, gli basta guardare la mia gobba crescere giorno dopo giorno mentre sono chino al tavolo da lavoro. Però devo dire che i ragazzini non sanno cosa faccia un fumettista, che tipo di lavoro sia. Io nemmeno alla loro età; l’ho capito pochi anni fa che il fumetto è un mestiere complesso, che richiede grande sforzo tra il lavoro mentale di ricerca e scrittura e il lavoro manuale di disegno. Penso che mio figlio abbia intanto capito che non è un mestiere troppo remunerativo. L’altro giorno mi chiedeva quando guadagna mia sorella…

[Tutti ridono]

VF: Sai, è più difficile spiegarlo a casa, in famiglia, giù al meridione. Qui a Nord, ma anche in Centro Italia, mi sembra che si riconosca una dignità a questo mestiere, mentre a Sud purtroppo no. Mio padre ad esempio non è mai stato in grado di spiegare ad altri di cosa mi occupassi io, prima che entrassi in Accademia. Un po’ perché è complesso spiegarlo, un po’ perché è avvilente. Nei luoghi in cui sono cresciuto, le professioni praticabili erano tre: dottore, avvocato e architetto-ingegnere. Il resto era nulla. Al Sud è sempre più difficile.

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Comarò vol. 2 – In conversazione con Bianca Bagnarelli

Sabato 15 marzo si è tenuto a Schio il secondo appuntamento di Comarò, la piccola rassegna sul fumetto che sto curando per Casa Capra. L’ospite del giorno era Bianca Bagnarelli, giunta eroicamente da Bologna nonostante il maltempo. Di seguito potete leggere una trascrizione della nostra piacevolissima chiacchierata – condensata quanto possibile, per esigenze editoriali. 

VALERIA: Grazie Bianca per essere qui. Oggi parliamo del tuo libro “Animali domestici”, uscito qualche mese fa per Coconino Press. Un’antologia, una raccolta di racconti che hai scritto e disegnato nell’arco di dieci anni, tra 2013 e 2024. Questo libro è qualcosa di speciale per chi conosce il tuo lavoro, perché contiene delle storie apparse finora soltanto all’estero, in lingua inglese, oppure uscite come autoproduzione, ma mai ristampate. Cosa provi a vedere finalmente pubblicato questo libro? E per Coconino poi, che so esserti molto caro come editore di fumetti, dato che in catalogo ha numerosi dei tuoi autori preferiti.

BIANCA: Prima di tutto grazie a tutti voi per essere presenti e grazie a te e Saverio per l’invito. È stato stranissimo, pubblicare questo libro. L’anno scorso ho passato mesi a rileggere le mie vecchie storie, dopo anni. Rileggere se stessi può essere terribile, soprattutto se è passato tanto tempo: saltano agli occhi errori, imprecisioni. Mi sono immersa in una versione, anzi più versioni di me che non esistono quasi più. Pubblicare con Coconino però è stato bello, penso non lo avrei fatto con nessun altro editore italiano. Quando avevo 18-19 anni andavo in fumetteria e compravo i loro libri quasi di default, a scatola chiusa, tanto sapevo che mi sarebbero piaciuti. Poter essere oggi nel loro catalogo è una cosa bella, un altro piccolo sogno che si avvera. Sono contenta.

V: Com’è nata l’idea di farlo, questo libro? Li hai contattati tu oppure ti hanno chiesto loro di farlo?

B: Ho appena detto che non avrei potuto farlo che con loro, ma [ride] la realtà è che mi era stato proposto da un altro editore, cioè Rulez. Chiara Palmieri mi aveva contattato anni prima, chiedendomi di fare questo libro. Io all’inizio opponevo resistenza, ma alla fine lei era riuscita a vincere le mie perplessità e avevamo iniziato a progettarlo. Per varie vicissitudini, come accade in questo lavoro, poi non abbiamo concluso, ma mi era rimasta “nella pancia” l’idea di questo oggetto fisico, che rendesse le storie permanenti. Il problema, quando si lavora tanto con le pubblicazioni digitali, è che col passare degli anni di quel lavoro si perde traccia, per cui il fatto di avere un oggetto fisico, un libro, che contenesse quello che avevo fatto mi era rimasto in testa. Ne parlai con Alessandro Tota, gli dissi pure che mi sarebbe piaciuto farlo con Coconino ma avevo paura di non interessargli. Lui mi ha risposto “Sei scema, secondo me il progetto gli piacerà di sicuro”; abbiamo sentito l’editore e alla fine il libro s’è fatto.

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Comarò vol. 1 – In conversazione con Juta

Sabato 22 febbraio 2025 ha inaugurato a Schio (Vicenza) una piccola rassegna sul fumetto che ho avuto il piacere di curare col supporto di Saverio Bonato di Casa Capra e la libreria Quivirgola. Il primo ospite di Comarò è stato Juta (Simone Rastelli), arrivato direttamente da Roma.

Non era la prima volta che accoglievamo Juta a Schio. Qualche anno prima, nel 2021, era venuto qui in occasione dell’uscita del suo primo libro a fumetti “Bambino Paura” (edito da Rizzoli Lizard). Mentre organizzavamo Comarò, è stato naturale pensare a lui come primo ospite. Anche per una questione di buon auspicio alla rassegna. Quella che leggerete di seguito è una trascrizione della nostra piacevolissima chiacchierata – condensata quanto possibile, per esigenze editoriali. 

VALERIA: Sono passati alcuni anni dall’ultima volta che sei stato qui a Schio per presentare “Bambino Paura”. Ora torni per parlarci della tua ultima fatica, “Gatto Pernucci”, pubblicato con Coconino Press la scorsa primavera. Vorrei iniziare con una domanda, che penso sia quella che ci siamo poste tutte dopo aver letto il fumetto: come ti è venuta l’idea di creare un personaggio come Gatto Pernucci, già iconico dal primo momento in cui è apparso disegnato su un foglio?

JUTA: Gatto Pernucci è nato in un momento molto specifico. Ero a casa con il Covid, nel 2021. Era più o meno Natale e io avevo appena disegnato questa storia, che se volete possiamo rileggere assieme.

[Sullo schermo dietro di noi viene proiettata la storia presente sul suo sito Spezzoni: potete leggerla anche voi qui]. 

È la prima volta che la leggo ad alta voce. Questa storia è nata così, improvvisando. Io avevo i capelli lunghi, ero a casa con una vestaglia che lavavo gli spinaci, e avevo il Covid.

V: E il nome? Non tanto “Gatto”, ma “Pernucci”?

J: Non esiste credo il cognome Pernucci. Avevo un amico di infanzia che di cognome faceva Bernucci. E poi mi è capitato di conoscere dei Pennucci. Ma Pernucci si è manifestato così: diciamo che è pure piacevole da pronunciare. Già ora lo abbiamo nominato una decina di volte, penso che per la fine della presentazione avremo raggiunto il centinaio.

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Dentro e fuori dall’armadio. Storia dei coming-out di Eleanor Crewes

È più difficile entrare nel closet o uscirne? Scoprire la propria omosessualità o dichiararla? Nel suo memoir a fumetti Tutte le volte che ho scoperto di essere gay (Diabolo Edizioni), Eleanor Crewes racconta di aver impiegato anni prima di riuscire a fare i conti con la sua identità di giovane lesbica, inanellando durante l’università una serie di tentativi poco convinti di uscire allo scoperto.

Quando era bambina adorava Buffy l’ammazzavampiri, in particolare il personaggio di Willow, che fa coming-out nella quarta stagione. Passava il tempo disegnandola e cercando di replicare i suoi look. Sprofondava il naso nei libri che raccontavano storie di fantasmi, ascoltava gruppi musicali sconosciuti fiera della propria stranezza e del suo gruppo di amiche fidate. Crescendo era diventata più insicura: la terrorizzavano i pettegolezzi e si sentiva schiacciata dalla pressione di conformarsi e dover per forza baciare qualche ragazzo, uscirci e farlo sapere al mondo.

Era sempre stata consapevole di provare un forte senso di differenza rispetto alla norma a cui era stata socializzata, ma le mancavano gli strumenti adatti a descriversi, così aveva finito col respingere sentimenti e orientamento sessuale “scomodi” ai margini della sua vita sociale (“Era come se qualcuno mi avesse consegnato una lettera da tenere al sicuro, ma non potessi aprirla fin quando non fosse arrivato il momento giusto”). Solo verso la fine dell’adolescenza, quando ignorare il metaforico armadio che prendeva forma attorno a lei era diventato impossibile, aveva abbracciato l’esperienza del coming-out, che però non si era risolto in un unico spettacolare evento rivelatorio, ma in tanti brevi momenti di lucidità intermittente.

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Con “Transformer” Nicoz Balboa abbraccia la sua identità transgender

La società in cui viviamo fatica a decostruire e contrastare i pregiudizi di matrice storica e culturale che riguardano le diverse identità di genere. A causa della tossicità di queste idee e la violenza che spesso le accompagna non sorprende che alcune persone provino vergogna, senso di colpa e altre emozioni negative quando considerano la possibilità di essere trans*. La verità è che il genere è una bellissima parte di sé e merita amore e rispetto. Abbracciare la propria identità e avere il coraggio di comunicarla a coloro che sono più vicinə può essere un gesto estremamente potente. Sapere quando o come dichiararsi può essere spaventoso, ma anche molto liberatorio se si è dispostə a farlo.

“Sei una sirena con questo culo e questi fianchi”, “Sì, ma una sirena maschio”. Play with fire, seconda opera di autofiction di Nicoz Balboa, uscita nel 2020, si concludeva con una conversazione cruciale tra Nicoz e lə suə compagnə non-binary Stef. Giunto all’apice della sua disforia, Balboa si disegnava schiacciato tra la pressione di conformarsi alle tradizionali aspettative di genere femminile, la paura di non sapere se la sua relazione sarebbe sopravvissuta ad un eventuale coming-out e la necessità di uscire dall’ombra ed essere sincero con se stesso e ciò che provava. Un tuffo nel profondo blu metteva la parola fine a un momento di grande sofferenza.

Transformer riparte esattamente da qui, dal profondo del mare. Uscito questa settimana per Oblomov, il volume – attesissimo da coloro che seguono l’attività di journaling di Nicoz online e non vedevano l’ora di poterlo ritrovare su carta – racconta il coming out di Balboa come uomo trans e l’inizio del suo percorso di transizione. Un viaggio costellato di imbarazzi, dubbi, delusioni ma anche orgoglio, tenerezza e intimità, narrato con il consueto mix di dramma e umorismo che caratterizza i lavori dell’autore romano, francese d’adozione.

Come le sue precedenti opere, Transformer si presenta come un diario disegnato, con tanto di date, note a margine e testi che corrono per tutta la tavola con continui cambi di lettering, parti acquerellate e parti inchiostrate, sbavature; fuori da ogni schema – in tutti i sensi. Vi è però una differenza rispetto ai titoli che l’hanno preceduto: Transformer si apre con una premessa. Balboa si raffigura sulla pagina bianca mentre spiega che “alcune cose raccontate nel libro sono accadute, altre sono inventate. Cosa è vero e cosa no è irrilevante ai fini della storia”. Sarà inoltre utilizzata la schwa (ə) per riferirsi nella maniera più inclusiva possibile alle persone che compaiono nella storia. È un’intro che eccheggia la rottura della quarta parete di Alison Bechdel – uno degli spiriti guida di Balboa, menzionata anche all’interno del volume – che nei suoi fumetti autobiografici era solita rivolgersi al pubblico per accoglierlo nelle proprie storie.

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Questioni di principio: The Contradictions di Sophie Yanow

Dopo aver letto The Contradictions di Sophie Yanow per l’ennesima volta mi sono chiesta se l’amicizia abbia o meno un potenziale radicale. Dopotutto, il modo in cui concepiamo la politica ha un effetto sul tipo di amicizie che stringiamo, viceversa il modo in cui intendiamo l’amicizia può influenzare la nostra pratica politica. La linfa vitale dell’attivismo, il motore che alimenta la lotta alle strutture alienanti che ci separano e ci allontanano, non sono forse i sentimenti di lealtà e solidarietà della sua rete? Organizzarsi, coinvolgere e mobilitare altrimenti non sarebbe possibile: è quando le persone hanno forti legami emotivi, si sentono a proprio agio, apprezzate e incluse, che diventa più facile collaborare e ispirarsi a vicenda mentre si persegue una causa comune.

È altrettanto vero, però, che vivere secondo i propri ideali è maledettamente faticoso. Nonostante il duro lavoro e dell’impegno, si possono commettere errori, o peggio, si può finire per contraddirsi. È grave? Io credo che l’attivismo perfetto e inflessibile non esista, quindi mi verrebbe da rispondere di no. Ostinarsi a inseguirlo non può che portare ad un fallimento, col rischio di farne magari una malattia. Il problema è che quando si lavora in gruppo e si agisce in gruppo è facile sentire la pressione del pensiero unico, lasciare che voci altrui si levino sopra la propria, zittendo ogni dubbio o volontà di mettere in discussione ciò che non ci sembra giusto. Quando queste dinamiche si frappongono tra noi e la nostra comunità può succedere che il potenziale amicale di cui sopra venga meno e i rapporti si indeboliscano; nascano conflitti interiori, discussioni, ci si allontani pure.

Sophie Yanow, che in gioventù ha sperimentato sulla sua pelle – come dice lei stessa – una “interessante dissonanza” tra le filosofie che le sue conoscenze di sinistra le avevano fatto conoscere e i modi in cui queste persone tentavano poi di implementarle nelle loro vite, insomma tra teoria e pratica, realizza questo fumetto ripensando al suoi tormenti del passato, per capire in che modo sono stati decisivi nella sua formazione politica e personale.

The Contradictions è una storia di formazione incentrata su un’amicizia imperfetta, tra personaggi imperfetti. La protagonista, Sophie, ha vent’anni e studia arte. Decide di volare a Parigi sfruttando l’ultimo scampolo del suo prestito studentesco per allontanarsi il più possibile dalla sua ex, dai corsi di teoria critica e ritrovare se stessa. Una volta arrivata, fatica a fare amicizia fino a quando non incontra Zena, coetanea che condivide la sua passione per le biciclette a scatto fisso e la politica radicale. Zena la introduce al pensiero anarchico e l’illegalismo e finalmente il suo disperato bisogno di comunità sembra appagato. Le due passano il tempo parlando della Comune di Parigi e di cibo vegano e durante le vacanze di primavera decidono di fare il loro primo viaggio insieme, in autostop, verso Berlino e ritorno. Nel corso della loro avventura Sophie si troverà a mettere in discussione i propri ideali, oltre all’entusiasmo iniziale per la visione del mondo di Zena. Diventerà presto evidente che non basterà la politica a tenerle unite.

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Vittime e combattenti. Ecco le “Moms” di Yeong-shin Ma

Il fumettista sudcoreano Yeong-shin Ma ha vissuto a casa dei suoi genitori per trent’anni prima di potersi permettere una sistemazione indipendente. Non aveva un gran rapporto con sua madre e come molti giovani adulti nella sua situazione, si sentiva assillato dalle sue infinite richieste. Una volta trasferito, però, si è rapidamente reso conto dei sacrifici e del lavoro di cura che lei svolgeva per mandare avanti la casa. Nel tentativo di sdebitarsi e intuendo di avere ancora molto da imparare da lei, le ha comprato un costoso taccuino chiedendole di riempirlo con tutto quello doveva sapere sulla sua vita, senza risparmiarsi dettagli dolorosi e crudi. Quello che la madre gli ha restituito meno di un mese dopo è diventato la base per Moms, il suo primo fumetto tradotto in lingua inglese.

Pubblicato da Drawn&Quarterly nel 2020 e ancora inedito in Italia, Moms è un fumetto audace e travolgente incentrato sulla storia di un gruppo di donne di mezza età, frustrate dalla mediocrità dei loro compagni e dei loro stipendi. Donne della classe operaia, capitanate dalla divorziata Lee Soyeon (personaggio modellato sulla madre dell’autore), che si fanno strada a colpi di ariete tra pervertiti o truffatori che le usano per sesso o denaro e si rifiutano di usare mezzi termini per amore della cortesia.

Nonostante la sessualità delle cinquantenni venga per lo più ignorata dalla narrazione mainstream, Moms non lesina sui dettagli della vita romantica di Soyeon e delle sue amiche. Yeong-shin Ma sfida le norme della tradizionale narrativa familiare coreana, che vorrebbe relegare le donne di una certa età nei ruoli di madri affettuose e senza nome, per raccontare con onestà la storia di coloro che desiderano qualcosa di più di ciò che le loro vite possono offrire. Donne che come chiunque altro cercano l’amore e la felicità, e si aggrappano alle loro speranze e ai loro sogni per ottenerli.

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Niente inviti speciali, niente pubblicità. La Georgia O’Keeffe di Colaone e De Santis

Quando Georgia O’Keeffe si è spenta nella sua residenza di Santa Fe, Nuovo Messico, era il 1986 e lei aveva 98 anni. Anche se ormai da qualche tempo aveva smesso di dipingere a causa di una degenerazione maculare legata all’età, con l’aiuto di diversi assistenti aveva lavorato alle sue tele fino all’ultimo, attingendo alla sua vivida immaginazione e alla memoria. O’Keeffe fu un’importante pittrice del secolo scorso ed è meritatamente considerata un’icona del modernismo americano, ma in Europa non venne mai realmente riconosciuta come tale fino a tempi recenti. Lei stessa d’altronde mise piede per la prima volta nel Vecchio Continente soltanto nel 1953, all’età di 65 anni; e Londra ospitò la prima mostra a lei dedicata soltanto nel 1993, postuma.

Per questo, quando il Centre Pompidou ha annunciato che nel 2021 avrebbe ospitato la prima retrospettiva francese su di lei, la notizia ha avuto enorme risonanza. L’imponente mostra del museo parigino comprendeva un centinaio di dipinti, disegni e fotografie e dispiegava cronologicamente la lunga traiettoria artistica di O’Keeffe. La curiosità suscitata dall’evento era tangibile: lunghe code, insolite nei giorni feriali, si dipanavano davanti al Centre (dopo la sua chiusura, la mostra sarebbe stata trasferita alla Fondation Beyeler di Basilea, in Svizzera, con un ulteriore successo di pubblico).

Curiosamente, fu proprio in quell’occasione che vennero arruolati Luca de Santis (sceneggiatura) e Sara Colaone (disegni) per realizzarne una biografia a fumetti. I due, com’è noto, condividono un felice sodalizio artistico da oltre una decina d’anni e i loro libri sono conosciuti e tradotti in numerosi paesi stranieri. Dall’unione delle forze del loro editore francese – Steinkis – e il Centre Pompidou è nato allora Georgia O’Keeffe, Amazone de l’art moderne, graphic novel poi arrivato anche in Italia via Oblomov, nella primavera del 2022.

Trovo che i fumetti a quattro mani di Colaone e de Santis siano una macchina narrativa perfettamente oliata, magnifici nella loro chiarezza e apparente semplicità. Non ho paura di sbilanciarmi dicendo che li annovero tra le mie letture di conforto: in fondo ho scelto il loro Ariston (2018) per la prima recensione di questo blog, e non potevo che accogliere con ottimismo l’annuncio della loro nuova fatica. Sarebbero riusciti a riprodurre l’intensità narrativa, la sottile ironia e l’accuratezza storica mai didascalica dei precedenti Leda (2016) e In Italia sono tutti maschi (2008)?

O’Keeffe divenne famosa contro ogni previsione. Seppe farsi strada in un ambiente dominato dai maschi e rifiutò categoricamente di essere valutata solo sulla base del suo essere donna. Basterebbe questo a renderla candidata ideale alla posizione di femminista, direbbe qualcun, non fosse che lei rifiutò sempre di essere etichettata come tale e mantenne una posizione ambivalente riguardo ai movimenti delle donne. Nel fumetto di De Santis e Colaone – fortunatamente – non si forza in alcun modo l’interpretazione politica della sua parabola artistica e privata, ma ci si concentra sull’energica mescolanza di arte, infedeltà, distanza, malattia e successo che caratterizzarono la sua esperienza. Senza lesinare sulle contraddizioni di cui fu punteggiata.

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Dritto per dritto. Il biopic in salsa Fabio Tonetto

Chissà se le persone che l’hanno letto converranno con me quando dirò che Dritto per dritto di Fabio Tonetto è l’autobiografia di un cane che si ritrova a tirare le somme della propria vita, dopo aver interrotto i legami con la sua famiglia e aver sperimentato un breve successo come artista di strada. Si potrebbe obiettare che il sottotitolo “Una fiaba a quattro zampe” lo connoti semmai come la storia di un cagnolino ribelle, che rifiuta le convenzioni che lo vorrebbero sempre su due zampe, dritto e composto come un umano, e se ne va in giro facendo dispetti da quadrupede. Oppure, se si guarda l’incipit (“Ieri notte ho fatto un sogno”), si potrebbe leggerlo come il racconto di una serie di apparizioni mentali, in cui il personaggio protagonista percorre in lungo e largo l’elemento onirico, per confessarsi.

Queste interpretazioni sono probabilmente tutte ugualmente corrette e ragionevoli. D’altronde è dai tempi di “Ren Rocchi” prima e “Rufolo” poi, che Tonetto ci concede la libertà di armeggiare di fronte alle sue serrature narrative con generosi mazzi di chiavi di lettura, osservando da lontano i nostri sforzi con timido sollazzo. Io, nel mio piccolo (blog), preferisco attenermi alla versione più drammatica, forse per una questione anagrafica. Vedo il libro come un racconto di formazione, in grado di svelare la genesi interiore del cambiamento vissuto dall’animale protagonista per mezzo di piccole scene/gag.

Dritto per dritto inizia effettivamente con un sogno ambientato la notte di Natale, emblematica ricorrenza in cui tutti – animali compresi – ci lasciamo andare a bilanci emotivi. La voce narrante è del cane protagonista, che non riesce a vivere serenamente il ritrovo con la famiglia. Ha la sensazione che le sue azioni e interazioni sociali non siano adeguate, che commetterà un errore e rovinerà l’atmosfera. Ma soprattutto che suo fratello minore riceva un trattamento di favore (“Sembrava mi provocassero, mentre con mio fratello erano sempre tranquilli”).

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