Comarò vol. 4 – In conversazione con Marco Taddei e Maurizio Lacavalla

Sabato 10 maggio, per l’incontro conclusivo della rassegna Comarò, abbiamo ospitato a Casa Capra Marco Taddei e Maurizio Lacavalla, i due autori di “HPL – Una vita di Lovecraft” pubblicato da Edizioni Bd. Un fumetto che racconta una vita potenziale del celebre scrittore di Providence ed è strutturato come una sorta di monologo interiore dello stesso, in bilico tra brandelli di realtà e macabre fantasie. Un arazzo degli abissi che, come rivelerà chiaramente la chiacchierata trascritta qui di seguito, è frutto in primis della folle passione di due autentici lovecraftiani.

VALERIA: Questa è la vostra prima collaborazione. Ci raccontate come vi siete conosciuti e com’è nata questa avventura “a quattro mani”?

MARCO TADDEI: Quando e com’è nato questo amore vuoi sapere? Forse Maurizio lo ricorda meglio di me, mi sembra fosse il 2018. 

MAURIZIO LACAVALLA: Sì, era il 2018.

MTAD: Eravamo a Bari, a questo festival chiamato “BGeek”. Una cosa da smanettoni e nerd. Quello era un periodo strano, in cui le case editrici mandavano molti autori a questo genere di eventi. C’era anche Tuono Pettinato, per capire comunque il calibro delle personalità coinvolte. Maurizio era lì per promuovere il suo primo libro (“Due attese”, edito da Edizioni Bd). Tra uno stand e l’altro l’ho visto e per me è stata una fulminazione: ho sentito immediatamente una morbosa attrazione per il libro, tanto che l’ho preso subito e poi ne ho anche scritto per The Towner…

MLAC: Per il Tascabile!

MTAD: Ah, giusto. Se non ci fossi tu! (Ride) Feci una recensione del suo fumetto, tanto mi piacque. Nella mia testa quindi qualcosa stava già succedendo. Questi inchiostri oscuri, questo modo di disegnare così liquido mi ispirava tanta narrazione. Io all’epoca avevo già nel cassetto il testo per questo libro (HPL, n.d.r.), che avevo scritto attorno al 2015. Lo avevo tenuto da parte per una serie di ragioni, tra le quali il fatto che era un progetto assurdo e non aveva ancora trovato la sua dimensione. Vedendo il lavoro di Maurizio m’è tornato subito in mente quello che avevo scritto.

MLAC: Qualche mese dopo, a Lucca Comics, mi vede e mi fa la fatidica domanda: “Tu hai mai letto Lovecraft?” Io gli rispondo di no, perché all’epoca la mia conoscenza di Lovecraft si limitava a quelle due-tre storie che avevo letto da ragazzino, tra i 14 e i 15 anni. Gli rispondo così e il giorno dopo lui mi manda una mail con la sceneggiatura che aveva scritto; la prima delle innumerevoli stesure venute dopo. Ci tengo a dire che le parti che mi avevano colpito di più della sceneggiatura che aveva scritto Marco erano quelle che non ricordavo ci fossero nella letteratura e nell’immaginario di Lovecraft. Erano delle parti che derivavano e si potevano muovere all’interno dei mondi di Howard (Lovecraft, n.d.r) ma ne risultavano indipendenti. Difatti, salvo eccezioni clamorose come il lavoro di Alberto Breccia, non mi sono mai sentito veramente attirato dal modo in cui Lovecraft era stato rappresentato nel tempo. Non sentivo “mio” quell’immaginario costellato di mostri e tentacoli. Ho detto subito a Marco: se vuoi l’orrore te lo metto, ma i mostri no. Cthulhu,  creatura abissale ormai ridotta a meme e Funko Pop, l’ho disegnato per questo solo una volta nel libro.

MTAD: Non cercavo altro. Una presa di posizione del genere per me era miele.

MLAC: L’orrore l’abbiamo inserito nelle pieghe della vita di Lovecraft. Le parti più spaventose secondo me sono quelle ambientate nella casa dove viveva con le zie e i nonni. È stato un lavoro costante di riscrittura reciproca.

V: Il progetto del libro vi ha tenuti impegnati per cinque anni. Dato che vivete in città diverse, volevo sapere come avete gestito a distanza la lavorazione, che tipo di corrispondenza avete tenuto…

MTAD: Fittissima!

MLAC: Dire che la nostra corrispondenza è stata fitta è dire poco. Tra mail, telefonate e messaggi ci siamo sentiti praticamente ogni giorno. Marco è uno che regala molti libri. Tra i primi che mi ha spedito per farmi “scattare” qualche meccanismo per lavorare al fumetto c’è stato un libricino intitolato “La pietra della follia” di Benjamín Labatut, che per raccontare il delirio del contemporaneo parte proprio dalla vita di Lovecraft e di altri matematici e fisici. Questo per farti un esempio degli scambi che abbiamo avuto. Poi c’è Friedrich Dürrenmatt, che abbiamo citato all’inizio del volume (“È la paura che mi costringe a scrivere? Così come da piccolo mi costringeva a fischiare quando mi mandavano in cantina?”). In apparenza il virgolettato può sembrare slegato dal contenuto del libro, ma per noi è più che calzante, dato che parla di paura e creatività. 

MTAD: Come dice bene Maurizio, il collegamento è nebuloso, necessita di debunking. Lovecraft è uno scrittore che parla di paura. Una delle sue frasi più famose è quella che dice che “il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto”. Dürrenmatt parla proprio di come la paura ti porta alla creatività, ti protegge in qualche maniera, è sciamanica; Lovecraft era così matematico, così analitico, forse neanche se n’era accorto che fischiettava quando lo mandavano in cantina. 

MLAC: La frase è tratta da una video intervista a Dürrenmatt; uno dei vari link che ci siamo scambiati via Whatsapp nel tempo…

V: Lovecraft ha contaminato e alimentato l’immaginario collettivo. Moltissimi autori dichiarano un debito nei suoi confronti. Voi come mai lo avete scelto come soggetto? 

MTAD: Come hai detto te in apertura, Lovecraft ha influenzato moltissimo il nostro mondo. Il suo immaginario è diventato filosofia in questi ultimi anni, ha formato il nostro modo di pensare. Nei suoi racconti scrive di forze gigantesche che arrivano da un tempo che non è mai iniziato e mai finirà, forze che agiscono su di noi in maniera del tutto implacabile, che è sostanzialmente quello che viviamo in questo periodo. Mi viene in mente Donald Trump, col suo secondo mandato: sapevamo che stava arrivando ma non ci potevamo fare nulla. 
Lovecraft è morto povero, completamente ignorato, se non dai suoi tanti corrispondenti “amici di lettera”. In qualche modo la sua scomparsa dalla linea temporale dell’umanità è stata scongiurata dal fatto che i suoi amici hanno recuperato – subito, appena è morto – i suoi racconti, pubblicando un’antologia postuma. È stato come Van Gogh: in vita era un personaggio eccentrico, sfortunato anche (ogni volta che ha provato a fare qualcosa con un editore gli è andata male). Pubblicava sulle rivistacce, Weird Tales, Amazing Stories… riviste comprate dai ragazzini. Pubblicazioni quindi non onorevoli. Io mi rivedo in questo personaggio, nella sua lotta contro i mulini a vento. Mi piaceva l’idea di renderlo protagonista di un suo stesso racconto.

V: Al centro del libro c’è una lettera. Una lettera indirizzata a Lovecraft, da parte del padre.

MTAD: Suo padre era un personaggio, per così dire, non presentabile. Morì quando Lovecraft era bambino, ma già da tempo era “assente” dal quadro familiare. Ricoverato per una crisi psicotica. La moglie veniva da una famiglia di ricchi proprietari decaduti, invece lui era un venditore porta a porta di posate! Per un periodo era stato anche fabbro! Il fatto che avesse la sifilide era uno scandalo per la famiglia: gli studiosi sospettano che la crisi psicotica derivasse proprio da quella malattia. Sapete no, che parte dal basso e va verso l’alto, arriva alla testa.
Senza fare spoiler, quella lettera che leggeremo alla fine del libro svelerà una sorta di predestinazione quasi astrale, mentale, genetica, di ciò che è successo nella vita di Lovecraft.

MLAC: Il contenuto della lettera è quello che mi ha fatto innamorare della sceneggiatura. Ho scelto di fare il libro perché quella parte mi stuzzicava, volevo vedere come sarei riuscito a renderla. È una lettera allucinata, scritta da un uomo in preda a un delirio psicotico. Non c’erano indicazioni sulla sceneggiatura, era una parte affidata in toto al disegnatore. Visto che il testo era così potente, ho pensato che non serviva sequenzializzarlo. In quella parte è praticamente un libro illustrato.

V: Questa lettera è una vostra invenzione, giusto? Non è realmente esistita.

MTAD: Esatto. È un espediente narrativo che compare all’inizio del volume e che attiva tutta la vita di Lovecraft dal nostro punto di vista. Abbiamo fatto una serie di scelte, naturalmente: nel libro non abbiamo inserito tutto quello che è accaduto nella sua vita, alcune cose sono accennate. Per esempio gli anni passati a New York, appena sposato. 

V: Come ha reagito New York a Lovecraft? 

MTAD: Con totale e completo menefreghismo. Lui si è maciullato le ossa in quei due anni. Il primo anno ha distrutto il suo matrimonio; il secondo anno è rimasto in affitto in una casa semi vuota. Immaginatevi un personaggio completamente immaturo, che deve affrontare la grande macchina di New York: trovare lavoro, provare a tenere in piedi a distanza il matrimonio (Sonia Greene, con cui si era sposato, si era trasferita in un’altra città verso Ovest, dopo che il suo negozio di cappelli aveva chiuso). Lovecraft per pagarsi le spese minime vendeva mobili del suo appartamento. Non chiedeva prestiti agli amici, mai, niente del genere. Sonia lo aiutava come poteva, ma a un certo punto smette anche lei di finanziarlo e la loro relazione si interrompe. A quel punto torna a Providence.

V: Providence, città dove rimarrà fino alla morte.

MTAD: Quando si ammala, mica sapeva di essere ammalato. Va in ospedale in condizioni disperate e quando viene ricoverato non esce più. La sua degenza dura qualche settimana, giusto Maurì?

MLAC: Sì, sì.

MTAD: La cosa interessante è che mentre sta lì, scrive un “Diario” del suo dolore. Una testimonianza molto cruda, scientifica, sui suoi sintomi, su come sta. Si spegne così, dentro quell’ospedale.

V: Nel vostro libro raccontate la degenza in ospedale e la morte di Lovecraft. Sono pagine che si distinguono immediatamente dal resto, perché cambia lo stile del disegno. Il tratto si assottiglia, le ombre spariscono e sembra quasi che la visione venga inondata di luce. È un contrasto molto interessante. Maurizio ci racconti il perché di questa scelta? 

MLAC: Pensa che quelle pagine, in fase di lavorazione, le avevo rinominate “Morfina 1”, “Morfina 2”, proprio perché in quei momenti lui è pieno di morfina. Apro una parentesi per dire che tutto il libro è stato tutto disegnato due volte, quella che vedete ora è la seconda stesura delle chine. Inizialmente, per lavorare a quelle pagine, avevo utilizzato un tratteggio più espressivo, pittorico, fatto sempre col pennino ma con degli incroci freschi. Poi, quasi per noia, ho iniziato a diradare il tratto ottenendo una resa più gelida, meno espressiva. Mi è piaciuta così tanto che quando le ho ridisegnate, ho scelto un tratteggio ortogonale, che ho iniziato a chiamare “punto e croce” – se guardi la vignetta col suo volto, non sono altro che punti, croci e virgole, quasi un linguaggio informatico. Volevo proprio raggiungere una freddezza estrema.

V: A proposito di linguaggio informatico, c’è una tavola del libro in cui compare un ritratto del padre reso interamente con i caratteri del computer…

MLAC: Sì, quel ritratto è realizzato in ASCII art. È stato fatto in trenta secondi, sul web. Caricando un’immagine (in questo caso una fotografia del padre di Lovecraft, l’unica disponibile online) su un sito apposito che poi l’ha convertita in testo. L’intento era mostrare l’orrore che c’è dietro il velo sottilissimo della realtà. Quindi l’orrore che c’è appena dietro il disegno, l’immagine. C’è un film che ho visto grazie a un suggerimento di Marco, che si chiama “Il seme della follia” di Carpenter, nel film il protagonista solleva un lembo che si era staccato di un cartellone pubblicitario e quel gesto all’apparenza innocuo scatena tutta la sua follia. È il succo di tutta la letteratura di Lovecraft.

V: Un risultato ancor più gelido, in quanto fatto da una macchina. 

MLAC: Dopo centinaia di pagine potevo anche lasciargliene una. Quello del fumettista è anche un mestiere di noia e sotterfugi. (Ride)

V: Nella seconda parte del libro, avete immaginato Lovecraft in conversazione con uno scrittore amatoriale, un amico, che gli chiede in maniera molto cauta come riuscisse un antiquato gentiluomo come lui a scrivere storie così spaventose e esagerate. La sua risposta è naturalmente elusiva. Voi che idea vi siete fatti di queste due anime dell’autore? 

MTAD: Quello scrittore – Clifford Martin Eddy Jr. – è realmente esistito, e la conversazione che citi pure, è tratta da una lettera. I due erano usciti per una passeggiata a Providence ed erano arrivati a un quartiere che Lovecraft non aveva mai visto; un quartiere popolato da irlandesi e italiani che lui da buon xenofobo disprezzava. Nella lettera scrive che erano stati a mangiare gli spaghetti in un ottimo ristorante e noi siamo partiti da lì per immaginarci la sequenza. Tutto quello che succede in questo libro è un ipotesi di quello che potrebbe essere stato reale.

MLAC: È “Una vita” di Lovecraft, dopotutto.

MTAD: Nel libro, il ristorante in cui si fermano a pranzo si chiama “Cutolo”, come Cthulhu. (ride) Questo libro racconta una vita potenziale che abbiamo immaginato per Lovecraft. Non abbiamo prove, ma secondo noi è successo questo e lui ha vissuto così. Siamo come dei complottisti! Anche il passaggio in cui lui a New York si affaccia alla finestra e pensa affranto a cosa sta facendo della sua vita. Una disperazione condivisibile.

V: Quando si lavora con uno scrittore così “mitologico”, con un pubblico attento e affezionato a un immaginario specifico e ormai codificato, sono tante le accortezze da prendere? Voi come vi siete mossi per maneggiare la sua produzione?

MTAD: Non si può usare Lovecraft in quanto tale. Lo devi reinventare, altrimenti fai la figura dell’idiota. Non puoi raccontarlo con le sue parole. Noi abbiamo cercato di “essere” Lovecraft, come in una sorta di bizzarro metodo Stanislavski applicato al fumetto. Ti immergi nel personaggio, nelle atmosfere. Mi viene in mente un racconto di Borges, “Pierre Menard”, dove un fantomatico scrittore francese (Menard appunto) inizia a riscrivere parte del Don Chisciotte, senza averlo mai letto. Meravigliosamente fantasioso, come tutti i libri di Borges. D’altronde la letteratura è il campo della fantasia e questi giochi letterari sono qualcosa in più di un calembour. Come nasce il racconto? Come nasce la vita di una persona? Quali sono i caratteri che sfuggono e quelli replicabili?

MLAC: Ti dico questo: all’inizio del libro ci sono delle tavole con dei saldatori nello spazio, completamente inventati da me. Nessun racconto di Lovecraft menziona mai dei saldatori. Avevo del timore a inserire queste tavole all’inizio, consapevole che i fan più duri di Lovecraft avrebbero potuto contestare un immaginario che non gli appartiene. Poi mi son detto “chissenefrega” e le ho inserite comunque. Unico fan-service del libro, se vuoi, sono quei due tentacoli che si vedono nella copertina. Stop! Per il resto abbiamo deciso di prendere l’immaginario di Lovecraft, dimenticarlo e metterci del nostro. 

MTAD: Eravamo pronti a essere distrutti. Ma è andata bene! Devi sapere che Maurizio si è infiltrato nei gruppi Telegram e Reddit dei Lovecraftiani, 

MLAC: Volevo sondare il terreno. Ho caricato dei work in progress, che sono piaciuti molto. Tutte le varie trovate, anche la resa della cittadella di Cthulhu, sono state apprezzate. Come autore Lovecraft sulla rete vive molto: quello delle fan fiction e dei testi ispirati a lui è proprio un mondo tentacolare, mi sembrava sciocco far finta di nulla.

V: Una trovata geniale, non me l’aspettavo! E rispetto ai vostri precedessori, ovvero altri fumettisti che si sono cimentati con la vita e le storie di Lovecraft, come vi siete mossi? Penso soprattutto a Maurizio, che ha già citato Breccia e sicuramente l’ha avuto presente mentre lavorava.

MLAC: I miei riferimenti erano due. Il primo, Alberto Breccia, fumettista argentino incredibile che è riuscito a portare sulle pagine stampate una miriade di tecniche e visione mai viste prima. Il secondo è Philippe Druillet, altro fumettista dell’epoca, francese, molto meno materico o pittorico, ma estremamente dettagliato e visionario. Breccia lo sento più vicino alla mia sensibilità, tanta china, bianchi e neri; il suo lavoro lo conosco bene ma mentre lavoravo a questo fumetto non ho mai aperto i suoi libri. Volutamente. Ho pensato che se l’avessi seguito sarebbe stato un’imitazione sterile: il suo lavoro ha toccato delle vette altissime, riuscendo a rappresentare con tecniche sperimentali l’orrore lovecraftiano. Il mio stile è sporco, la mia pennellata secca, tra ordine e caos penseresti che sia più orientato al secondo, ma per “HPL” ho scelto di usare una struttura ordinata, geometrica che potesse creare un bel contrasto. Ho lavorato seguendo principi razionali, ma inaspettati, recuperando ad esempio la rappresentazione della prospettiva che si usa nell’arte russa. Una prospettiva “rovesciata”, dove il punto di fuga sta in chi guarda, fuori dal foglio, e non “all’orizzonte”. Lo si vede nelle tavole del primo atto, dove c’è una tavola imbandita, o nelle scene di vita quotidiana.

V: Un’altra domanda per Maurizio. Questo è il secondo fumetto che realizzi collaborando con uno scrittore-sceneggiatore. Prima di “HPL” infatti hai disegnato “Alfabeto Simenon”, scritto da Alberto Schiavone, pubblicato sempre da Edizioni BD. Dato che hai esordito come autore unico, volevo sapere come ti sei trovato in questa dimensione collaborativa e se pensi che tornerai anche a scrivere fumetti.

MLAC: Scrivere mi manca, ma ti dirò che lavorare con scrittori come Marco o sceneggiatori che hanno un approccio “non classico” alla materia, come Alberto, mi piace molto. In entrambi i casi ho avuto a che fare con sceneggiature piuttosto libere e in entrambi i casi sono stato “ascoltato” e assecondato come autore. In “HPL” ad esempio, mi sono permesso di chiedere a Marco se potevamo frammentare una frase su più vignette, cambiando la punteggiatura, e lui non ha esitato a dirmi ok. Anche con Alberto è stato un lavoro vicendevole. Si sviluppa un bel rapporto e sono certo che succederà di nuovo.

V: Tu, Marco, che rapporto hai col fumetto? Sei uno scrittore, l’abbiamo detto, molto prolifico (come Lovecraft!) e spesso i tuoi racconti, le tue storie, finiscono per essere disegnate. Cosa ti piace così tanto di questo medium? Lo preferisci in qualche modo alla prosa? Te lo chiedo anche per contestualizzare il libricino che hai recentemente pubblicato…

MTAD: Quest’hanno ho pubblicato un piccolo libro di racconti in prosa, sì. Non lo facevo dal 2009, fare un cambio di sangue ci voleva. Il libro si chiama “La mula e un altro racconto” (lo pubblica Radici edizioni). È successo che quando ho scoperto il fumetto, mi sono disinnamorato della prosa. Il fumetto secondo me è molto più intrigante della narrativa scritta, perché nel fumetto il rapporto con il lettore è molto diretto, da pari a pari. Il fumetto ha bisogno di un lettore per attivarsi, altrimenti rimane inerte: chi legge i fumetti fa questa cosa molto interessante che consiste nel collegare le vignette tra loro e metterci “del suo” nello spazio bianco che le divide. Una cosa potentissima, che in “HPL” abbiamo fatto in modo di sfruttare al massimo! Concedendo “spazio di manovra” al lettore, il racconto si arricchisce moltissimo dell’esperienza personale di ciascuno. Pure il disegno di Maurizio, col suo essere “non” descrittivo, dà modo al lettore di vedere all’interno di un semplice spazio nero la mostruosità e l’orrore. 


ALCUNE LETTURE SUGGERITE AL PUBBLICO, ALLA FINE DELL’INCONTRO:

Opere di Thomas Bernhard (soprattutto “L’imitatore di voci”, il preferito di Marco che dice: “Sono racconti brevissimi in cui lui racconta cose abbiette come fossero barzellette; un’esperienza di tilt meravigliosa”); il saggio di Lovecraft “L’orrore soprannaturale nella letteratura”; Michel Houellebecq “Contro il mondo, contro la vita” (con la prefazione di Stephen King); la raccolta di lettere di Lovecraft “L’orrore della realtà” pubblicata da Edizioni Mediterranee; la biografia di Lovecraft in più volumi, scritta da S.T. Joshi, “Io sono Providence”.

Menzioni d’onore anche a Thomas Ligotti e Vitaliano Trevisan.

A destra, Maurizio Lacavalla (col cappellino blu), Marco Taddei e io (con in mano una copia del libro). Schio, 10 maggio 2025
Banchetto libri a Casa Capra e schermo (sorprendentemente appropriato nelle misure) per mostrare le tavole del libro
Maurizio Lacavalla e Marco Taddei a Casa Capra (Schio), 10 maggio 2025
Il pubblico di Comarò, fotografato dalla vetrina di Casa Capra

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