Ricordando Tuono Pettinato: la dolcezza infantile e il magnifico fracasso di Nevermind

L’album che i Nirvana pubblicarono alla fine del 1992, Incesticide, contiene uno tra i loro cavalli di battaglia più amati, Sliver. Nella canzone Kurt Cobain canta l’esagerata cocciutaggine di un bambino rimasto con i nonni per una notte, guardando la tv e sentendosi abbandonato dai genitori. È un’ironica riflessione sull’infanzia, narrata attraverso armonie rudimentali e una fresca semplicità. “Grandma take me home! Grandma take me home!”

È solo uno dei tanti esempi dell’umorismo e della leggerezza di cui la band, e il suo leader in particolare, è stata capace. Nei panni del fanciullo piagnucolone, Cobain voleva che quella fosse “la canzone più ridicola” che avesse mai scritto. Registrata in poco più di un’ora, riusciva a trasmettere un senso di innocenza e determinazione, assieme all’aspra sensazione di sentirsi completamente incompresi.

Molte persone hanno raccontato la storia Cobain equivocandola, dimostrando di ignorare l’impatto che la società può avere sui traumi infantili e sull’autodistruzione degli adulti. Trasfigurato in un santino da portafoglio, Kurt è stato spesso stereotipato nel ruolo dell’artista depresso e messia generazionale che ha tragicamente posto fine alla sua vita. Per noi lettorx di fumetti, fortunatamente, c’è stato un autore che ha saputo discostarsi da questa tradizione melodrammatica per restituirci una fotografia più onesta del musicista. Sto parlando di Tuono Pettinato e del suo Nevermind.

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Pittsburgh. Passeggiare nella memoria di Frank Santoro

Pittsburgh, Pennsylvania, è la città in cui Frank Santoro è nato ed è la città in cui oggi vive e lavora come fumettista ed insegnante d’arte. Per anni ha provato a starle lontano, vivendo a San Francisco, vivendo a New York. Negli anni Duemiladieci, però, ci è tornato e da allora pare averci fatto pace. Tornare a vivere nella propria città natale non è un’anomalia, per gli americani: traslocano molto nel corso della propria vita, ma se devono mettere radici spesso scelgono per un motivo o per l’altro di tornare al punto di partenza. Per Frank Santoro è stato così e Pittsburgh, il libro, è il risultato di questo ritornare con il corpo in città e con la mente a tutto quello che è successo alla sua famiglia in quei luoghi. Un provare ad esaminare, in modo quasi ossessivo, il proprio passato, la storia dei suoi nonni e dei suoi genitori.

Si potrebbe definire una sorta di “origin story”: la storia dei suoi genitori e dei suoi nonni che solo collateralmente diventa anche la sua storia. È la spiegazione di come andarono le cose prima che lui nascesse. La cronaca dell’allineamento astrale che vide sua madre, Anne Marie, ex reginetta della scuola, primogenita di quattro fratelli destinati ad avere un problema con l’alcool, sposare suo padre, Frank Santoro Senior, appena rientrato dal Vietnam, salvo per miracolo.

Prima ancora che un fumetto autobiografico, Pittsburgh è il tentativo dell’autore di avvicinarsi alla sua famiglia. Capirla. Pensando ai suoi genitori come persone, senza giudicarle per aver deciso di divorziare quando aveva 19 anni.

A distanza di oltre vent’anni, è ancora doloroso per lui pensare alla loro separazione. Il padre e la madre lavorano in ospedale, spesso con turni che coincidono, ma si comportano come se non si conoscessero. Se mai tra di loro c’è stato qualcosa, quella testimonianza è la vita stessa di Frank “Junior”, il loro unico figlio. Entrambi sono affezionati a lui e lui è affezionato ad entrambi. Ma non può resistere alla tentazione di immaginarli di nuovo assieme. Così, ricostruisce dialoghi della loro vita da sposati, conversazioni tra loro e i loro genitori (i grandparents Santoro), cercando di collocarsi in questa narrativa, senza uscirne come un fantasma.

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